L’ultima cena, di Anna Picardi

(Lotta tra Carnevale e Quaresima, Pieter Bruegel il Giovane)

Veniva considerata l’Ultima Cena,  l’ultima  grande abbuffata prima del digiuno e dell’astinenza quaresimale.

L’ultimo giorno di Carnevale, il cosiddetto martedì grasso, le donne della famiglia si riunivano a casa di zia Giuseppina. Già nel primo pomeriggio si agghindavano  con candidi grembiuli e triangoli di cotone annodati sulla nuca per impedire che qualche capello ribelle  finisse  lì dove non doveva.

Che bello vedere anche  le nonne di solito vestite di scuro, a lutto o semi-lutto, per qualche ora biancheggiare. Occupavano  il grande tavolo della cucina con la  spianatoia di legno chiaro, sulla quale  impastavano  enormi quantità di farina. Affascinata guardavo il vulcano bianco che non sputava fuoco o lava, ma riceveva nel cratere  acqua  di sole (tiepida) leggermente  salata, per trasformarsi nelle mani esperte e leste in una palla morbida e liscia. Fatto il segno della croce intagliato con  una punta di coltello la si metteva a riposare  sotto una coppa di ceramica. Veniva poi  divisa a pezzi  da allungare in bastoncini da tagliare a loro volta a pezzettini  di   varie misure, a seconda della forma che gli si voleva dare. Ed ecco  tante mani appropriarsene e trasformarli in fusilli intorno a un ferro da calza o  a un  filo  di giunco e per questo chiamati ferricelli, in raschiatelli cavati a tre dita, in cavatelli sotto la pressione di un pollice, in orecchiette con la maestria del risvolto con l’aiuto  delle altre dita o di una punta rotonda di coltello. Ognuna aveva il suo compito specifico: Chi stendeva, chi tagliava, chi cavava. La regola ferrea: una a stendere e tagliare, due a cavare. Il tutto accompagnato da un cicaleccio fitto fitto. Noi bambini venivamo tenuti buoni con il dono di pezzi malriusciti da modellare a nostro piacimento.

Terminata l’opera, mentre il ragù di carne  mista e salsiccia che andava cuocendo lentamente nella teglia di terracotta piazzata sul trepiedi nel camino incominciava ad emanare il suo inconfondibile profumo, alcune si accingevano a riempire  d’acqua la grande caldaia nera di fuliggine da appendere alla catena del camino sull’intreccio di frasche secche. La fuochista avrebbe provveduto a darle in fiamme per portare a bollore l’acqua. Qualcuna  si adoperava  a grattugiare il  formaggio pecorino ben stagionato, mentre altre si occupavano del rafano che doveva essere però prima liberato dal terriccio. Per quest’ultimo ci si avvicendava alla grattugia. L’impresa consisteva nel fare a gara a chi resisteva più a lungo alle lacrime brucianti provocate dal forte e penetrante odore  che la bianca radica sprigionava alla violenza  usatale.

Nel frattempo venivano rincasando  gli uomini. Chi aiutava a scolare la pasta, chi riempiva le bottiglie di vino, chi tagliava il pane, chi preparava la brace per arrostire la carne  del maiale ammazzato da poco e la salsiccia ancora fresca. Le cuoche intanto condivano i piatti da servire chiedendo ad alta voce chi sulla pasta  volesse solo il rafano con la mollica e chi anche  o solo il formaggio. Si delineavano gusti e preferenze. La cosa più importante era comunque che durante il pranzo due persone sedute di fronte non starnutissero. Sarebbe stato di malaugurio. Una delle due non ci sarebbe stata più il carnevale seguente!

Nel menu non poteva mancare la rafanata (un soufflè a base di abbondante pecorino, uova e rafano), cotta in un ampio  tegame di creta rigorosamente   nel  forno di campagna  (una specie di braciere con il coperchio) con  cenere e carboni sotto e sopra. Anni dopo, arrivata in Germania,  mi  sentii quasi a casa quando scoprii che  i Tedeschi mangiavano  il rafano,  sconosciuto persino  in molti paesi della mia regione.

A fine pasto non poteva mancare quella che per noi bambini era la leccornia che aspettavamo durante  tutta la cena: la focaccia di sanguinaccio dolce.

Sgombrato  il tavolo da stoviglie, bottiglie  e tovaglia ci si preparava  all’uv’ canar’t  (l’uovo goloso). E qui i grandi ritornavano bambini. Sul bordo del tavolo si piazzava un uovo sodo e  a turno poi si bendavano gli occhi a qualcuno al quale, dopo avergli fatto fare la giravolta per perdere il senso dell’orientamento,  si metteva in mano  un coltello con il quale  doveva spaccare  l’uovo che per premio avrebbe così potuto mangiare.

Ed ecco le grida  e i salti di quelli che si vedevano  puntare contro il coltello da parte di chi sbagliava direzione  alla ricerca dell’uovo. Più a destra, più a sinistra, ci sei quasi, dai, dai! E tutti a sganasciarsi dalle risate. Che gaudio  innocuo per grandi e piccoli.

Chi per la terza volta sbagliava il bersaglio, doveva cedere il coltello al prossimo volontario.

Nessuno in famiglia suonava uno strumento musicale. Ma per carnevale si preparava “u cupa cupa”, uno strumento arcaico e rudimentale. I grandi lo facevano con  “u st’ppidd”  o   “u  m’nzett” (specie di tinozzi  in miniatura che venivano usati come misura per il grano). Vi stendevano  sopra,  ben tirata,   ‘a zepp’’ (la membrana bianca che tappezza la cavità addominale di maiale, capra o pecora lasciata essiccare all’uopo) con in mezzo ben legata una canna sottile, che sfregata bene su e giù con un pugno chiuso inumidito, emetteva un suono cupo. E da qui l’onomatopea  cupa cupa. Noi bambini ci costruivamo il nostro  strumento con scatole di latta, una pezza umida e un maccherone lungo per unirci al concerto. Al ritmo monotono si  cantavano a turno   mottetti  in dialetto. Ognuno aveva in riserva il suo. Erano più o meno gli stessi che i giovanotti per settimane, ma specialmente l’ultima settimana, avevano portato come serenata davanti alle porte di amici e non  per racimolare  uova, formaggio, salsiccia, soppressata, pane e vino da consumare poi insieme nel sottano (cantina) di qualcuno di loro.

Chiova  lu timp’ e chiov’  fort’  fort’

chiova  lu timp’ e chiov’  fort fort’ (coro)

ohi la patrona  vin’  a  apr’  ‘a  port‘

ohi la patrona  vin’  a  apr’  ‘a  port ‘! (coro)

Chiov’a lu timp’  e chiov’  fin’  fin’

chiova  lu timp’  e chiov’  fin’  fin’  (coro)

ohi la patrona  cirn la  farin’

ohi la patrona  cirn la  farin’’  (coro)

 Chiova lu timp’  e chiova  a stezz a stezz

 chiova lu timp’  e chiova  a stezz a stezz   (coro)

ohi la patrona scinn la sauzezz.

ohi la patrona scinn la sauzezz.    (coro)

E poi una vera e propria filastrocca   ancora ora la mia preferita perché cantata dalla mia nonna Anna.

“Nu jurn m’  n’  scij a fa’  ‘na compra

nu jurn m’ n’ scij a fa’  ‘na compra,  (coro)

‘na pignatella bena lavurata 

‘na pignatella bena lavurata.   (coro)

Quant’acqua  faci lu virn e l’istate

quant’acqua  faci lu virn e l’istate  (coro)

non si cummogghja lu quul della pignata

non si cummogghja lu quul della pignata.  (coro)

Poi n’gi acces’ cint grastatidd,

poi n’gi acces’ cint grastatidd,   (coro)

scinn natann facca non c’era nint’

scinn natann fa cca non c’era nint’.  (coro)

 Poi nce mes’ na vacc’  e nu voj

poi nce mes’  na vacc’  e nu voj,   (coro)

 n’urt d ptrisin  e maslkoj

n’urt d ptrisin  e maslkoj .      (coro)

Poi  nci  ammtaj princip’ e mrkant,

poi  nci   ammtaj princip’ e mrkant,  (coro)

la pignatella stacija semp’ tant’

la pignatella stacija semp’ tant’.  (coro)

Poi  nci  ammtaj  a sogra mia arrabbiat

poi  nci  ammtaj  a sogra mia arrabbiat, (coro)

non ci rimas lu quul de la pignata 

non ci rimas lu quul de la pignata   (coro)

Canta Ninuzza, Ninella Ninà.

E così fino a notte tardi.

L’indomani sarebbe tornata l’austerità. Le nonne avrebbero lavato pentole e tegami, posate e stoviglie tutte con la cenere (Mercoledì delle Ceneri!) per eliminare gli ultimi residui di grasso animale che sarebbe ricomparso  a tavola con la carne e i suoi derivati solo dopo la resurrezione di Gesù.

Zia Francesca, una anziana  vicina, avrebbe appeso fuori dalla finestra “ Quaremma”, un pupazzo fatto con  “serte” di peperoni secchi, aglio e cipolla quale ammonimento a cibarsi principalmente di cibi scarni  per i quaranta giorni a venire.

Naturalmente per il martedì di carnevale cerco di riproporre quando posso il menu ai miei amici  internazionali. Mi cimento addirittura nel fare la pasta a mano con farina di grano duro portata apposta da Accettura. La focaccia di sanguinaccio che agli inizi ho provato ad offrire, spiegandone con enfasi gli ingredienti, ha raccolto subito solo sguardi esterrefatti ed espressioni disgustate. Ormai il sangue non si trova neanche più e così è stata eliminata la tentazione.

A suo tempo, quando esistevano ancora macellerie vere, mi ero  ingraziata  un  macellaio tedesco  che me ne cedeva  un litro di contrabbando. La prima volta gli  si erano  rizzati  i pochi capelli che ancora aveva in testa  quando gli  avevo svelato la ricetta. Ci avrei messo zucchero e cannella, abbondante  caffè e cioccolato, noci e mandorle tritate e biscotti sbriciolati per ricavarne una crema deliziosa  cotta a bagnomaria. Col sangue lui faceva  solo salsicciotti salati  da mangiare con i crauti. 

Io mi sono sempre rifiutata di  assaggiare questa specialità tedesca perché per me il sangue va trasformato in sanguinaccio dolce e… basta!Ero riuscita a farlo  assaporare  anche a mio marito tedesco che di solito non mangiava dolci.

Lui  però ha continuato a mangiare  di gusto  anche  i suoi salsicciotti  a base di  sangue salato.

*

Anna Picardi (1949), nata ad Accettura, vive in Germania. Dal 2003 è presidente della Federazione delle Associazioni Lucane in Germania e Membro della Commissione dei Lucani nel Mondo della Regione Basilicata.

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