
(Lotta tra Carnevale e Quaresima, Pieter Bruegel il Giovane)
Veniva considerata l’Ultima Cena, l’ultima grande abbuffata prima del digiuno e dell’astinenza quaresimale.
L’ultimo giorno di Carnevale, il cosiddetto martedì grasso, le donne della famiglia si riunivano a casa di zia Giuseppina. Già nel primo pomeriggio si agghindavano con candidi grembiuli e triangoli di cotone annodati sulla nuca per impedire che qualche capello ribelle finisse lì dove non doveva.
Che bello vedere anche le nonne di solito vestite di scuro, a lutto o semi-lutto, per qualche ora biancheggiare. Occupavano il grande tavolo della cucina con la spianatoia di legno chiaro, sulla quale impastavano enormi quantità di farina. Affascinata guardavo il vulcano bianco che non sputava fuoco o lava, ma riceveva nel cratere acqua di sole (tiepida) leggermente salata, per trasformarsi nelle mani esperte e leste in una palla morbida e liscia. Fatto il segno della croce intagliato con una punta di coltello la si metteva a riposare sotto una coppa di ceramica. Veniva poi divisa a pezzi da allungare in bastoncini da tagliare a loro volta a pezzettini di varie misure, a seconda della forma che gli si voleva dare. Ed ecco tante mani appropriarsene e trasformarli in fusilli intorno a un ferro da calza o a un filo di giunco e per questo chiamati ferricelli, in raschiatelli cavati a tre dita, in cavatelli sotto la pressione di un pollice, in orecchiette con la maestria del risvolto con l’aiuto delle altre dita o di una punta rotonda di coltello. Ognuna aveva il suo compito specifico: Chi stendeva, chi tagliava, chi cavava. La regola ferrea: una a stendere e tagliare, due a cavare. Il tutto accompagnato da un cicaleccio fitto fitto. Noi bambini venivamo tenuti buoni con il dono di pezzi malriusciti da modellare a nostro piacimento.
Terminata l’opera, mentre il ragù di carne mista e salsiccia che andava cuocendo lentamente nella teglia di terracotta piazzata sul trepiedi nel camino incominciava ad emanare il suo inconfondibile profumo, alcune si accingevano a riempire d’acqua la grande caldaia nera di fuliggine da appendere alla catena del camino sull’intreccio di frasche secche. La fuochista avrebbe provveduto a darle in fiamme per portare a bollore l’acqua. Qualcuna si adoperava a grattugiare il formaggio pecorino ben stagionato, mentre altre si occupavano del rafano che doveva essere però prima liberato dal terriccio. Per quest’ultimo ci si avvicendava alla grattugia. L’impresa consisteva nel fare a gara a chi resisteva più a lungo alle lacrime brucianti provocate dal forte e penetrante odore che la bianca radica sprigionava alla violenza usatale.
Nel frattempo venivano rincasando gli uomini. Chi aiutava a scolare la pasta, chi riempiva le bottiglie di vino, chi tagliava il pane, chi preparava la brace per arrostire la carne del maiale ammazzato da poco e la salsiccia ancora fresca. Le cuoche intanto condivano i piatti da servire chiedendo ad alta voce chi sulla pasta volesse solo il rafano con la mollica e chi anche o solo il formaggio. Si delineavano gusti e preferenze. La cosa più importante era comunque che durante il pranzo due persone sedute di fronte non starnutissero. Sarebbe stato di malaugurio. Una delle due non ci sarebbe stata più il carnevale seguente!
Nel menu non poteva mancare la rafanata (un soufflè a base di abbondante pecorino, uova e rafano), cotta in un ampio tegame di creta rigorosamente nel forno di campagna (una specie di braciere con il coperchio) con cenere e carboni sotto e sopra. Anni dopo, arrivata in Germania, mi sentii quasi a casa quando scoprii che i Tedeschi mangiavano il rafano, sconosciuto persino in molti paesi della mia regione.
A fine pasto non poteva mancare quella che per noi bambini era la leccornia che aspettavamo durante tutta la cena: la focaccia di sanguinaccio dolce.
Sgombrato il tavolo da stoviglie, bottiglie e tovaglia ci si preparava all’uv’ canar’t (l’uovo goloso). E qui i grandi ritornavano bambini. Sul bordo del tavolo si piazzava un uovo sodo e a turno poi si bendavano gli occhi a qualcuno al quale, dopo avergli fatto fare la giravolta per perdere il senso dell’orientamento, si metteva in mano un coltello con il quale doveva spaccare l’uovo che per premio avrebbe così potuto mangiare.
Ed ecco le grida e i salti di quelli che si vedevano puntare contro il coltello da parte di chi sbagliava direzione alla ricerca dell’uovo. Più a destra, più a sinistra, ci sei quasi, dai, dai! E tutti a sganasciarsi dalle risate. Che gaudio innocuo per grandi e piccoli.
Chi per la terza volta sbagliava il bersaglio, doveva cedere il coltello al prossimo volontario.
Nessuno in famiglia suonava uno strumento musicale. Ma per carnevale si preparava “u cupa cupa”, uno strumento arcaico e rudimentale. I grandi lo facevano con “u st’ppidd” o “u m’nzett” (specie di tinozzi in miniatura che venivano usati come misura per il grano). Vi stendevano sopra, ben tirata, ‘a zepp’’ (la membrana bianca che tappezza la cavità addominale di maiale, capra o pecora lasciata essiccare all’uopo) con in mezzo ben legata una canna sottile, che sfregata bene su e giù con un pugno chiuso inumidito, emetteva un suono cupo. E da qui l’onomatopea cupa cupa. Noi bambini ci costruivamo il nostro strumento con scatole di latta, una pezza umida e un maccherone lungo per unirci al concerto. Al ritmo monotono si cantavano a turno mottetti in dialetto. Ognuno aveva in riserva il suo. Erano più o meno gli stessi che i giovanotti per settimane, ma specialmente l’ultima settimana, avevano portato come serenata davanti alle porte di amici e non per racimolare uova, formaggio, salsiccia, soppressata, pane e vino da consumare poi insieme nel sottano (cantina) di qualcuno di loro.
Chiova lu timp’ e chiov’ fort’ fort’
chiova lu timp’ e chiov’ fort fort’ (coro)
ohi la patrona vin’ a apr’ ‘a port‘
ohi la patrona vin’ a apr’ ‘a port ‘! (coro)
Chiov’a lu timp’ e chiov’ fin’ fin’
chiova lu timp’ e chiov’ fin’ fin’ (coro)
ohi la patrona cirn la farin’
ohi la patrona cirn la farin’’ (coro)
Chiova lu timp’ e chiova a stezz a stezz
chiova lu timp’ e chiova a stezz a stezz (coro)
ohi la patrona scinn la sauzezz.
ohi la patrona scinn la sauzezz. (coro)
E poi una vera e propria filastrocca ancora ora la mia preferita perché cantata dalla mia nonna Anna.
“Nu jurn m’ n’ scij a fa’ ‘na compra
nu jurn m’ n’ scij a fa’ ‘na compra, (coro)
‘na pignatella bena lavurata
‘na pignatella bena lavurata. (coro)
Quant’acqua faci lu virn e l’istate
quant’acqua faci lu virn e l’istate (coro)
non si cummogghja lu quul della pignata
non si cummogghja lu quul della pignata. (coro)
Poi n’gi acces’ cint grastatidd,
poi n’gi acces’ cint grastatidd, (coro)
scinn natann facca non c’era nint’
scinn natann fa cca non c’era nint’. (coro)
Poi nce mes’ na vacc’ e nu voj
poi nce mes’ na vacc’ e nu voj, (coro)
n’urt d ptrisin e maslkoj
n’urt d ptrisin e maslkoj . (coro)
Poi nci ammtaj princip’ e mrkant,
poi nci ammtaj princip’ e mrkant, (coro)
la pignatella stacija semp’ tant’
la pignatella stacija semp’ tant’. (coro)
Poi nci ammtaj a sogra mia arrabbiat
poi nci ammtaj a sogra mia arrabbiat, (coro)
non ci rimas lu quul de la pignata
non ci rimas lu quul de la pignata (coro)
Canta Ninuzza, Ninella Ninà.
E così fino a notte tardi.
L’indomani sarebbe tornata l’austerità. Le nonne avrebbero lavato pentole e tegami, posate e stoviglie tutte con la cenere (Mercoledì delle Ceneri!) per eliminare gli ultimi residui di grasso animale che sarebbe ricomparso a tavola con la carne e i suoi derivati solo dopo la resurrezione di Gesù.
Zia Francesca, una anziana vicina, avrebbe appeso fuori dalla finestra “ Quaremma”, un pupazzo fatto con “serte” di peperoni secchi, aglio e cipolla quale ammonimento a cibarsi principalmente di cibi scarni per i quaranta giorni a venire.
Naturalmente per il martedì di carnevale cerco di riproporre quando posso il menu ai miei amici internazionali. Mi cimento addirittura nel fare la pasta a mano con farina di grano duro portata apposta da Accettura. La focaccia di sanguinaccio che agli inizi ho provato ad offrire, spiegandone con enfasi gli ingredienti, ha raccolto subito solo sguardi esterrefatti ed espressioni disgustate. Ormai il sangue non si trova neanche più e così è stata eliminata la tentazione.
A suo tempo, quando esistevano ancora macellerie vere, mi ero ingraziata un macellaio tedesco che me ne cedeva un litro di contrabbando. La prima volta gli si erano rizzati i pochi capelli che ancora aveva in testa quando gli avevo svelato la ricetta. Ci avrei messo zucchero e cannella, abbondante caffè e cioccolato, noci e mandorle tritate e biscotti sbriciolati per ricavarne una crema deliziosa cotta a bagnomaria. Col sangue lui faceva solo salsicciotti salati da mangiare con i crauti.
Io mi sono sempre rifiutata di assaggiare questa specialità tedesca perché per me il sangue va trasformato in sanguinaccio dolce e… basta!Ero riuscita a farlo assaporare anche a mio marito tedesco che di solito non mangiava dolci.
Lui però ha continuato a mangiare di gusto anche i suoi salsicciotti a base di sangue salato.
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Anna Picardi (1949), nata ad Accettura, vive in Germania. Dal 2003 è presidente della Federazione delle Associazioni Lucane in Germania e Membro della Commissione dei Lucani nel Mondo della Regione Basilicata.



