
L’unico aggettivo che si può impiegare per iniziare a parlarne è sorprendente: al termine della lettura si ha contezza di aver fatto un viaggio non previsto, non immaginato prima. Del brigantaggio tanto si è detto, tanto si è scritto, dalla narrativa in costume al revisionismo storico. Eppure a Carlo Spagna con il suo romanzo Il giudice di briganti (Edizioni dell’Ippogrifo, 2023), è riuscito qualcosa di incredibile, e cioè immergere il lettore nella storia postunitaria attraverso il presente, un presente avvincente, investigativo, a tratti dialettico e dubitativo.
L’autobiografia di questo romanzo inizia dal ritrovamento accidentale, nel palazzo di campagna degli Spagna, famiglia di notabili di Accettura da secoli, di due pistole franco-piemontesi Lefaucheux, cadute in mano di briganti a seguito di un agguato ai danni dell’Arma dei Carabinieri nei pressi di Fazzano. Il giudice Carlo Spagna, avvisato della scoperta dal famiglio che cura il podere ed il palazzo, inizia così l’indagine, affiancato dalla giovane storica Maria che rivela, nei tratti fieri del suo carattere, progenie di brigantessa – indagine condita pure dall’insolenza del corteggiamento.
E’ dunque un racconto di storia personale, familiare; l’autore è generoso nell’elargire ricordi privati, intimi, sia quelli preziosi, sia quelli dolorosi. La narrazione disegna con tratto veloce personaggi reali e accadimenti umani della recente storia di Accettura e degli accetturesi (ripensandoci, mi sono accorta che molti di coloro che affiorano in questo racconto corale non sono più in vita ma sono presenti nella memoria mia come in quella di chi conosce i luoghi).
Accanto all’autobiografia colorata appena di finzione narrativa, vi è la microstoria, il racconto delle vicende postunitarie che ebbero luogo in Basilicata e nel materano in particolare. Ma vi è anche l’intreccio con la storia contemporanea della Democrazia Cristiana e delle Brigate Rosse. Si aprono alcune riflessioni per i differenti epiloghi dei rapimenti di Cirillo e Moro; trova posto pure lo specchio riflesso tra le figure, distanti nel tempo, di Carmine Crocco e Raffaele Cutolo, che fa riaffiorare la traccia di antistatalismo propria del brigantaggio nella genesi delle mafie.
Appare riduttivo chiamarlo romanzo storico, il risultato mirabile è invece quello della critica storica nel romanzo. L’investigazione del legame tra la propria storia familiare e le due pistole sottratte per mano di banditi, condotta dal protagonista, è pure investigazione delle opposte ragioni, delle opposte fazioni della conservazione e resistenza, da un lato, e della rivoluzione e sovversione, dall’altro. Non tutti i briganti furono uguali, Crocco e Ninco Nanco non hanno la stessa caratura, spiacevole il primo, eroico il secondo.
Così, nel dibattimento e nella dialettica oscilla il dubbio circa la verità del passato che il giudice, come lo storico, cerca di ricostruire partendo dalle evidenze del presente. Chi fu l’aggressore, chi l’aggredito? La difesa fu proporzionata all’offesa? Lo scrittore prende in prestito la penna del giudice, con la logica del giurista analizza gli indizi, soppesa le argomentazioni.
Ne emerge un romanzo brillante e rigoroso, serio e toccante, che ha finito per essere il testamento spirituale del suo autore e ne tradisce l’intelligenza e lo spessore.
Tra il momento in cui ho iniziato a leggere e quello in cui ho terminato la lettura è accaduto il miracolo cupo della scomparsa del suo autore, giudice per davvero nella vita per oltre quarant’anni, stimatissimo a Napoli dove ha esercitato da ultimo la professione, così come nel suo paese. Un qualche Dio di briganti ha voluto che spirasse quando nella sua amata Accettura si parlava di lui e del suo ultimo libro, mentre si leggevano pubblicamente le sue parole.
E’ accaduto nel minuto in cui abbiamo spento le luci.
Maria Grazia Trivigno



