La dimensione metaforica della montagna assume nella poesia di Beppe Mariano un ruolo di archetipo del profondo che dilaga diffusamente nella sua opera, oltre ai testi specificamente dedicati a questo soggetto. Difatti l’autore lo intende come simbolo dell’incedere complesso nella condizione umana. Persino il passo immobile e in apparente discesa verso quel sottosuolo dell’umano descritto nella sezione carceraria, libera in realtà un passo lento di salita verso una consapevolezza dolente del vivere, una resistenza nello spazio libero della contemplazione noetica, che costituiscono una crescita e una mutazione ascensionale. La montagna come metamorfosi e tensione all’alto attraversano in forme diverse l’intera opera di Mariano nella cifra di un salire (verbo che ricorre spesso nei suoi versi) come cammino nell’Oltre, quando non ossimoricamente rovesciato nell’abisso speculare alla vetta ouranica del mondo ctonio o in un vuoto metafisico. Tutto sembra salire in questa poesia, gli uomini e gli animali, il pensiero che si muove guadagnando lentamente un terreno interiore impervio, le esperienze umane stratificate che fanno della vita stessa di Mariano una grande salita di cui gli amati ciclisti sono un esempio anche visivo e quasi sinestetico. Si tratta quindi di un paradigma espe- rienzale e cognitivo tale da strutturare comunque la sua ascesa nel tempo e nel tempio della parola. II “passo della salita” contiene la sacralità dell’accesso al luogo oltre i luoghi, colorato di miti arcaici e leggende di sapore trobadorico cui Mariano conferisce dignità di letteratura, consegnando la voce dell’oralità tramandata ad una scrittura nitida e fascinosa al contempo. I suoi versi evocano nel nostro ascolto una religione della montagna espresso in un canto lento che assurge a vero rito poetico e mistico. La passione del Pothos che caratterizza la sua poesia dell’inafferrabile trova qui la congiunzione tra la pienezza ardente della pietra e il suo sfuggire misterioso in altezza ai passi del poeta che l’insegue, per giungere a celebrare la sua congiunzione tra cielo e terra nell’altare della vetta. Ma Mariano dispone di una guida segreta, la parola che salva dove la voce poetica ha spesso accenti di felice mimesi con la carne di roccia del Dio Monviso che in sé include anche la Dea dei culti ancestrali e diventa emblema di una sacrale interezza. E la salita assume i colori del paesaggio in cui si muove, prende i cristalli perlacei riflessi dal sole sulle pietre e ci inonda di un chiarore arcano che rende atto iniziatico l’avventura di questa “poesia dell’alto”, catarsi da ogni possibile “assedio”. II paradiso delle vette, consacrato dal mito e dalla letteratura, si concede agli adepti e il miracolo di questo Pothos proiettato all’infinito fa del montanaro e del poeta che lo incarna un sacerdote — l’Orfeo montanaro, come lo definisce il poeta — che attinge cosi all’energia creatrice che abita le cime dei monti e le caverne, primi arcaici templi dell’uomo. La poesia di Mariano, che, come la vera poesia, e ricerca della verità, attinge alla vetta come luogo della Verità, che ha sempre dominato l’uomo primitivo per poi trasferirsi nell’altro spazio di ricerca che è la caverna, oscura e disvelatrice, secondo quanto Mariano stesso ci indica come territorio consono ad Hermes. Destino del poeta e di Beppe Mariano di farci incamminare con lui in quello spazio in che il Nume della poesia ci conduce, dove la montagna lega cielo e terra, nei territori dcl fiabesco originario in cui la ballata Mòria si aggira. Ritroviamo infatti nel volo fantastico della vacca omonima l’archetipo di un altrettanto impossibile viaggio alato, rintracciabile per esempio nella tradizione indù secondo cui le montagne un tempo volavano e Indra le scagliò sulla terra fissandole con il fulmine. (Che dietro questo fatato mammifero si celi l’ombra di una selvatica Dea montana, complice anche la sacralità della vacca nella religione indiana, o il topos della Follia creaturalizzata contenuto anche nell’ascendenza greca del nome?). Sulla pietra l’uomo si è trovato a incidere arte e linguaggio e per noi Mariano ha levigato la par-ola nelle pareti del suo Monviso “aguzzo” e in quelle della poesia, ascesa ed ascesi per dura prova dentro una fedeltà esistenziale alla montaliana “decenza del vivere”. Rileviamo infine la vitalità ossimorica dei suoi versi, figura non retorica ma gnoseologica e che, forse, nella “montagna marosa” trova uno dei suoi più alti emblemi, linfa di un pensiero poetante schivo e generoso: l’opera diventa testimone del tempo fino al sacrificio ma, al contempo, simbolo alto di salvezza nella autenticità di una parola poetica libera e anti convenzionale.
Gabriella Cinti
IL SEME DI UN PENSIERO
Il 7 luglio 1989 un grande blocco
di pietra e di ghiaccio, che credevamo
essere perenne, si è staccato dal Monviso…
Rilevo l’incavo lasciato dal cuore,
favo ghiacciato, staccatosi
a valle a soffocare un lago
a sconvolgere sedimenti millenari:
là dove s’andava, il cuore pago, per
arditi passi, a vertici di luce, a pensieri.
A smiava ‘d podej
adversé ‘l mond, che
a basteissa pié per ij cavej
‘l nòstr ancheuj
e tiré fort, con na blaga
che adess i compatiss.
Sopra il nevicato venoso della
fronte Monvisana,
d’un passaggio aereo appare il segno
gessoso, presto sfatto,
come cancellato dal vorticare rapinoso
di un’aquila accecata.
Salgono dal ventre montano colorate
frotte di ciclisti in gara.
Scende una nube che li inghiotte.
Senza lus, possand
sij pedaj, sla montà
grev, ant ël berlus
ëd n’arriv ch’a riva pà,
dna sima che a-pi è pì nen.
Capovoltasi la montagna,
nell’imbuto tutto precipita,
tutto s’innalza verso lo zero.
Sul ghiacciaio vacillante
poter ibernare, in attesa dei tempi,
il seme di un pensiero.
Traduzione dal piemontese:
Sembrava di poter rovesciare il mondo, che
bastasse impugnare
i capelli del nostro oggi
e tirare forte, con una prosopopea
che adesso compatisco.
Senza luce, pedalando
a fatica sulla greve salita,
nel miraggio di un arrivo che non giunge,
d’un traguardo in cima che non c’è più.
14
Deflagra una rosa pirotecnica in cielo.
Anche la tua vota si disarticola
Grandiosamente.
-Dammi un sole pallido
che possa sembrare lunare,
il tramonto di un’aurora,
dammi col riflettore
un’illusione di buio,
la più chiara possibile.
DIURNO V
La frazione di collina che scorgo,
sempre uguale, neanche più collina è,
ma un improprio verdiccio monolito.
Godo il pomeriggio lentamente
rigo dopo rigo, in disparte
scrivendo la lettera per te.
Né quelli che si stanno sperperando
sulle carte, né la conta sopravvenuta
possono interrompere il mio parlarti
in cui mi fingo con sommessa voce.
DIURNO IX
Doversi continuamente requilibrare
tra onda che s’avventa e risacca,
rimpianto e desiderio inappagabile.
Doverne anche sostenere l’urto
senza merito né consolazione:
quando si vorrebbe invece
l’inedia a ricoprirci lieve,
come un sudario trasparente.
Oh, venir diffusi nell’azzurro
incolore d’un cielo senza cielo.
Beppe Mariano
Ringrazio la cara Gabriella Cinti che con la sua profonda cultura e la sua grande capacità critica ha scritto questo breve saggio che mi riguarda e ringrazio Luciano Nota per averlo reso pubblico