Nel 750° della nascita di Dante: La montagna dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno… (Purgatorio, I, vv. 4-5), di Giovanni Caserta

Dante-Alighieri-300x234Arrivati al centro della terra, Virgilio, arrampicandosi al corpo peloso di Lucifero e portandosi Dante sulle spalle, si gira su sé stesso per 180 gradi e comincia a salire. Ha inizio la scalata della   purificazione. Infatti, se, nel viaggio attraverso l’Inferno, i due viaggiatori sono stati sempre in discesa, a partire da questo momento tutta la loro strada sarà in salita, come chi si levi dal fango e si avvii verso più spirabile aere. Questa è anche la ragione per cui, più si sale, più ci si sente leggeri e pronti ad andare avanti. Il cammino verso l’alto, in definitiva, è il cammino verso la libertà.

L’approdo al Purgatorio avviene attraverso la cosiddetta “natural burella, cioè uno stretto e difficile passaggio sotterraneo, che, dopo aver percorso tutto il raggio della terra, approda sulle rive di una montagna, alta e solitaria nell’oceano. E’ il passaggio dal buio alla luce e ai colori, compreso il verde della speranza. E perché tutto funzioni in piena coerenza, l’approdo avviene all’alba, così come lo smarrimento di Dante era avvenuto a sera, nel momento in cui, addormentandosi, si perde la coscienza, luce di Dio, ovvero il “ben” dell’intelletto. All’arrivo di Dante e Virgilio, infatti, c’è il più bel cielo che si possa immaginare. E il cuor si riconforta; e gli occhi si rasserenano. Così Dante descrive la sua alba: “Dolce color d’oriental zaffiro, / che s’accoglieva nel sereno aspetto / del mezzo, puro insino al primo giro, //a li occhi miei ricominciò diletto, / tosto ch’io usci’ fuor dell’aura morta / che  m’avea contristati  li occhi e ‘l petto” (Purgatorio, I, vv. 13-18).

In tanto luminoso paesaggio, i due passeggeri  sono nuovi del luogo.  Dante viene dalla terra; Virgilio dal Limbo. Questo spiega perché Virgilio stesso appare disorientato e incerto, quale è la ragione quando si avvicina troppo al soprannaturale. Non si dimentichi che Ulisse e i suoi compagni furono affogati nel mare, proprio per essersi avvicinati troppo alla montagna del Purgatorio. Bisogna, perciò, che la ragione stessa, a questo punto, attenda lumi da chi nel soprannaturale vive e si muove. E le prime indicazioni arrivano dal guardiano del Purgatorio, che nulla ha di simile ai tanti guardiani che, di cerchio in cerchio, si sono incontrati nell’Inferno. Il guardiano del Purgatorio ha tutte le fattezze della solennità e della saggezza. Infatti è “un veglio solo / degno di tanta reverenza in vista, / che non dee a padre alcun figliuolo” (Purgatorio, I, vv.33-35). Si tratta di Catone l’Uticense, così detto per distinguerlo da Catone il Censore e per ricordarne il suicidio, con cui, consumato a Utica, volle sottrarsi  alla dittatura di Cesare.

Ci si è giustamente domandato, ed è cosa nota, perché Dante abbia  assunto a custode  del Purgatorio, proprio Catone, che aveva poco diritto a stare là dove stava, vestibolo del Paradiso. Catone l’Uticense fu infatti pagano. Sotto il profilo culturale, non può dirsi più saggio di Virgilio e di Aristotele e dei tanti “spiriti magni” che abitano il Limbo. Eppure, nell’aldilà, occupa posto ben più alto. E’ il motivo per cui lo stesso Virgilio è come suggestionato e quasi intimidito. Non solo. Catone l’Uticense aveva la colpa di aver ripudiato la moglie Marzia. Ma, soprattutto, era suicida, esattamente come lo era Pier Delle Vigne, che, pur onesto e falsamente accusato dai nemici di corte, per il solo atto del suicido, si era trovato nel settimo cerchio, in una condizione particolarmente dolorosa e avvilente.

Dante aveva scritto che solo la fede consente agli uomini la via della salvazione (Inferno, II, v. 30). E Catone l’Uticense non aveva fede. C’è anche altra considerazione da fare. Catone era stato nemico di Cesare, che, all’inizio della Divina Commedia, Dante considera fondatore dell’Impero, che, a sua volta, è premessa alla costituzione dell’impero spirituale della Chiesa. E’ come dire che Cesare, in certo qual modo, fu il precursore di San Pietro, per volere della Provvidenza (Inferno, II, vv. 17-24). Poiché Catone l’Uticense si è opposto a Cesare fino al suicidio, se ne potrebbe dedurre che egli si è opposto al disegno divino. Alla logica e ai fatti non si sfugge. E sono tutte ragioni storiche e logiche, che non si potrebbero superare, se a tutto l’episodio non si desse una spiegazione mitica, cioè poetica, cioè simbolica. Anzi, paradossalmente, è proprio l’atto del suicidio a diventare motivo della salvazione di Catone. Uccidendosi, infatti, egli ha rivendicato la sua libertà, di cui luogo e simbolo, a sua volta, è il Purgatorio. E’ come dire che al Purgatorio, regno della liberazione, serviva un eroe della libertà. Non è casuale che Virgilio, per conquistare il favore di Catone, presenti Dante come colui che cerca la libertà, la quale è bene tanto prezioso quanto sa chi per essa arriva a suicidarsi: “Libertà va cercando, – dice  – ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta” (Purgatorio, I, vv. 71-72).

E’ una vera e propria captatio benevolentiae, che non ha nulla di subdolo, come invece succedeva nell’Inferno, con i demoni. E’, invece, un dovuto, indiretto, riconoscimento, che è segno di massimo rispetto. Del resto, Catone non ha nulla della iattanza dei demoni infernali. Costoro, più d’una volta, appena hanno visto Dante, tentano, anche con la forza, di rimandarlo indietro, negandogli il passaggio. E c’ è bisogno di tutta la decisione e la fermezza di Virgilio perché se ne vinca la resistenza. Qui Catone, sapendo che nulla accade che non sia nei piani di Dio, vuole solo una spiegazione ai suoi dubbi. Il suo discorso, infatti, comincia proprio con un interrogativo, che è anche un dubbio: “Chi siete voi – chiede –  che contro al cieco fiume / fuggita avete la prigione etterna? […] / Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna, / uscendo fuor  della profonda notte / che sempre nera fa la valle inferna?” (Purgatorio, I, vv. 40-45).

Catone non appartiene ancora alle anime beate, ma, nella veste di guardiano del Purgatorio, conosce bene le leggi dell’aldilà. E le leggi dicono che non si può passare dall’Inferno al Purgatorio. Perciò, pur se espressa in forma retorica, la domanda che egli fa, anzi si fa, è la seguente: “Son le leggi d’abisso così rotte? / o è mutato in ciel novo consiglio, / che, dannati , venite alle mie grotte?” (Purgatorio, I, vv. 46-48). E’ assai dubbio che sia così. Virgilio, per conseguenza, deve dimostrare che né sono cadute le vecchie leggi, né c‘è stata alcuna violazione delle stesse. Bisogna convincere Catone della eccezionalità dell’evento e della straordinarietà dello stesso, che è privilegio concesso ai due viaggiatori, direttamente dall’alto.

E subito, a manifestare con i fatti la condizione non di dannati, ma di umili passeggeri, Virgilio invita Dante ad abbassare lo sguardo e le ginocchia dinanzi a Catone, che pur santo non è. E’ un necessario un atto di umiltà, virtù contrapposta alla superbia, perché, se la superbia è la radice di ogni peccato, l’umiltà, di contro, è la premessa indispensabile al pentimento e, quindi, alla salvezza. Né è estraneo, all’invito di Virgilio,  il rispetto dovuto a chi svolge alta funzione, in nome di un essere superiore, giusto e buono qual è Dio. E subito arriva, per Catone, la rassicurazione. Non deve aver dubbi. Parlando di sé, Virgilio precisa che il viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio è soprattutto un atto di ubbidienza e di umiltà, rispetto ad un ordine che arriva dall’alto. Stia tranquillo. “Da me non venni – gli dice: – donna scese dal ciel, per li cui prieghi // della mia compagnia costui sovvenni” (Purgatorio, I, vv. 52-54).  In fondo, il suo è un atto anche di amore.  E perché sia chiaro che si tratta di un evento straordinario, che sfugge alle leggi, eppure è giusto, Virgilio specifica che Dante non è un dannato, perché è ancora vivo; quanto a lui, Virgilio, non si può dire che sia dell’Inferno, perché siede nel Limbo, proprio là dove è anche Marzia, la moglie di Catone, che tanto amò Catone e che, per amore, a lui tornò dopo il ripudio.

Forse, in tutto il discorso di Virgilio, questo è un punto debole. Anzi, è proprio così. Si è già detto che il mondo del Purgatorio è sconosciuto a Virgilio, come sono sconosciute le sue leggi. Si spiega, perciò, come, di tanto in  tanto, egli abbia qualche cedimento. Così è da leggere il riferimento all’amore di Marzia per Catone, che, in fondo, ricorda una debolezza dello stesso Catone, che, secondo le leggi pagane, l’aveva ripudiata e, poi, ripresa. Virgilio, è evidente, usa una dialettica, che è quella valida per le cose terrene e per gli uomini della terra. Sotto forma di cattura della benevolenza, si è detto, va letto il passaggio con cui egli allude al suicidio per libertà di Catone; ora completa il discorso, dichiarando che egli sa bene come quel  suo corpo, di cui si privò, sarà  luminoso nel giorno del Giudizio Universale. Insomma il suo suicidio non fu peccato. Ma non dice nulla di non ovvio e di subdolo.

Diverso è il riferimento a Marzia, che, un po’ maliziosamente, vien fatta entrare nel privato di Catone. E se ne risente Catone, che, quasi in forma di fastidio, se non di rimprovero, fa seccamente notare che certi “argomenti umani” non servono più in Purgatorio, ove il linguaggio deve essere  sempre chiaro e franco. Marzia, per lui, non conta più nulla, perché ad altro egli intende. Che se veramente quel viaggio è voluto da donna del cielo, sono inutili i raggiri e i riferimenti a donne terrene. Perciò, nettamente così chiarisce: “Se donna del ciel ti move e regge, / come tu di’, non c’è mestier lusinghe: bastisi ben che per lei tu mi richegge” (Purgatorio, I, vv.91-93). Insomma, non si possono mettere sullo stesso piano le richieste e i meriti di una donna  comune, risiedente nel Limbo, con le richieste e i meriti di una donna risiedente in Paradiso, qual è la Madonna innanzitutto.

Si direbbe che la risposta sia stata anche piuttosto sbrigativa, come di chi, attendendo al suo rigoroso dovere, non vuol perdersi in chiacchiere e ipocrisie. E infatti passa subito ad un imperativo. Sappiano, Virgilio e Dante, che in Purgatorio non ci si può permettere di attardarsi; diventerebbe una colpa. Si sta in Purgatorio per purificarsi quanto prima. Non per nulla, più si sale e più si ha voglia di salire e si diventa leggeri. Nel secondo canto del Purgatorio, quando le nuove anime arrivate si fermano, incantate, ad ascoltare il canto di Casella, rinviando la salita della montagna, è Catone ad intervenire e rimproverare le anime, compreso Virgilio, che ne resta mortificato. Perciò, pur trovandosi di fronte a due anime, che per lui hanno dimostrato tanto rispetto, e pur trovandosi di fronte ad un’anima culturalmente eletta qual è Virgilio,  è con piglio deciso che Catone usa l’imperativo: “Va’ dunque – quasi gli impone -, e fa che tu costui ricinghe / d’un giunco schietto e che li lavi ‘l viso, / sì ch’ogni sucidume quindi stinghe; / ché non si converria, l’occhio sorpriso / d’alcuna nebbia, andar dinnanzi al primo / ministro ch’è quei di Paradiso” (Purgatorio, I, vv.94-99).

Vuol dire che, prima di cominciare la scalata, bisogna che Virgilio lavi la faccia di Dante, che porta tutti i segni della fuliggine infernale. Ogni gesto ha un senso. Bisogna anche che gli cinga il capo non con una corona di rose o alloro, ma con un giunco liscio e  flessibile. Dev’essere liscio, perché non deve avere nodi, cioè viluppi e riserve interne. Bisogna che sia, per l’appunto schietto, cioè franco e sincero. Quello stesso giunco, così povero e così poco prezioso, ha anche la qualità d’essere flessibile, cioè pieghevole, ossia pronto ad assecondare, umilmente, la punizione divina. Diversa, come è noto, era la natura delle anime dannate, che nonostante la punizione, continuavano a bestemmiare e maledire, rifiutando la giustizia divina. Si pensi, per tutti, a Farinata degli Uberti e a Capaneo.

E poiché, per compiere l’operazione imposta da Catone, bisogna scendere verso la riva del mare, là dove il giunco cresce, scatta l’occasione per descrivere da vicino il nuovo luogo. Si definisce così quella che è la particolare poesia del Purgatorio, tendente alla pittura, al tenue, al chiaroscuro e al sospiro. Tutto è dolce e, per dir così, liquido. Non si fanno mancare i vezzeggiativi.  E si comincia subito con la parola “isoletta”: ”Questa isoletta – dice Catone – intorno ad imo ad imo, / la giù colà dove la batte l’onda / porta de’ giunchi sovra ‘lmolle limo” ( Purgatorio, I, vv.100-102). Sono versi che, tra nasali e liquide, danno la visiva e uditiva percezione della dolce forma della costa e, contemporaneamente, quasi il suono  dell’acqua che batte e ribatte sulla battigia.

Catone intanto non c’è più.  Dopo la raccomandazione perché il ritorno dei due passeggeri sia per altra via, e seguano il cammino del sole, scompare come un baleno. Notevole, in proposito è la presenza di due forti accenti che ne descrivono la scomparsa. Si creano due giambi: “Così sparì”. Quindi, dopo tanto scatto, il canto plana verso la chiusa, presentando due  passeggeri che, comprensibilmente confusi, si avviano verso la riva del mare. A confortarli c’è l’ora mattutina e, di lontano, il tremolar della marina, che, nelle “erre”,  fa quasi intravedere il  luccichio delle acque.

Giunti sul posto, senza profferir parola, Virgilio si china e sull’erba, anzi sull’<<erbetta>> (altro vezzeggiativo) intrisa di rugiada, poggia “soavemente” il palmo delle mani. Sempre senza dir parola, Dante gli si avvicina quietamente, facendosi lavare il viso, quasi fosse un bambino. Virgilio, sempre in silenzio, seguito da Dante, va dove crescono i giunchi. Strappatone uno, immediatamente ne nasce un altro, dallo stesso punto. Si ha la conferma che in Purgatorio non c’è posto per le parole inutili e per la sosta. Tutto deve avvenire in fretta, in succesione. Iddio lo vuole; e da lui bisogna correre.

Giovanni Caserta

 

 

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