DON GIOVANNI FRANZONI, il prete “scomodo” contro i poteri oscuri della Chiesa: intervista tratta dal volume di Aldo Onorati “La voce e la memoria” (EdiLet, 2015), a cura di Marco Onofrio e Fabio Pierangeli

copertina di marco onofrioGiovanni Franzoni, già abate di S. Paolo fuori le Mura, a Roma, e autore della lettera pastorale “La terra è di Dio” (1973), si dimise in seguito a controversie con l’autorità ecclesiastica.

   Nell’aprile del 1974 pubblicò un saggio teologico, Il mio regno non è di questo mondo, sul rapporto Chiesa-potere e, subito dopo, venne sospeso “a divinis” per essersi dichiarato in favore della libertà di voto dei cattolici nel referendum del 1974. Nello stesso anno la Comunità operante attorno a lui raccolse le sue Omelie (Mondadori).

   L’intervista che segue è un documento di particolare importanza. Fu rilasciata il 27 luglio 1976, qualche giorno prima che il card. Poletti, vicario generale di Roma, lo riducesse allo stato laicale contestandogli, fra l’altro, la sua scelta politica in favore del P.C.I., resa pubblica in piena campagna elettorale.

Come si comporta Gesù nel suo tempo? Come un cristiano può, oggi, ispirarsi a lui?

– Dalle pagine del Vangelo penso emerga la missione che Gesù sentì dentro di sé come Parola di Dio, come Figlio di Dio che discese dal suo trono di onnipotenza per venire a condividere la condizione degli uomini, il loro cammino, le loro incertezze, le loro sofferenze e le loro lotte. Gesù non scelse soltanto una carne umana – così, in modo piuttosto astratto –, scelse anche un popolo e una storia, la storia del popolo di Israele che già aveva avuto un cammino di liberazione dalla schiavitù. Scelse anche una particolare condizione sociale. Nacque infatti fra gli umili, i poveri e gli oppressi, cui infuse una capacità di unirsi, di fare comunità e di aggregarsi in un modo diverso da quello con cui le classi dominanti di allora – i ricchi, i potenti, i dotti, gli uomini politici – riunivano la società e formavano il popolo.

   A quel tempo, quindi, Gesù, come figlio di Dio, venne a portare un messaggio di amore, di fraternità e di unione fra gli uomini, ma dentro a un popolo diviso, a struttura piramidale al cui vertice poche persone avevano in mano il potere di decidere per gli altri, controllavano gli strumenti culturali e la ricchezza, godevano di autorità e prestigio. Erano i sacerdoti e i farisei. Venivano poi le classi intermedie – lavoratori, artigiani etc. –, che producevano per tutti guadagnandosi un certo rispetto; quindi, via via fino alla base, le classi più sfruttate, i contadini, i pastori, i pescatori: erano uomini che facevano un lavoro duro, costretti a trattare cose ritenute immonde, volgari e impure, fino al punto che il tipo di lavoro si trasformava in una specie di macchia per chi lo faceva. Costituivano, tutti insieme, la gran massa di gente che non poteva decidere nulla, privata del diritto di pensare di testa propria e costretta a subire guerre o paci, a consumare certi prodotti invece di altri, a fare certi atti di devozione religiosa. Il tutto sempre con scarsa coscienza e consapevolezza.

Eppure la scelta di Gesù fu senza equivoci. Non c’è dubbio che proprio a questi ultimi egli rivolgesse la sua parola di speranza.

– Ad essi e agli emarginati, agli ultimi in assoluto della società, cioè tutti coloro che, portando impressi nella carne i segni di gravi handicap fisici o mentali, venivano esclusi dall’umano convivere perché ritenuti impuri o posseduti dal demonio. Gesù si rivolse prevalentemente a queste classi sociali, trovò i suoi discepoli fra i lavoratori e si pose al loro servizio, dicendo che aveva addirittura trovato più amore e più disponibilità alla comunione e alla fraternità fra le prostitute, i pubblicani e i lebbrosi che non fra i sacerdoti e i farisei.

– Quando Gesù volle dare esempio di che cosa significasse amare, raccontò la parabola del buon Samaritano. Qual è il senso “rivoluzionario” del racconto?

– La parabola è particolarmente delicata e nel contempo provocatoria, irritante nei confronti delle persone che, stimandosi “per bene”, presumevano di essere modelli di vita e di comportamento nella società del tempo. Gesù raccontò la storia di un mercante che, andando per la strada di Gerico, incappò nei ladroni e fu pestato, derubato e abbandonato sul ciglio della strada. Passò un sacerdote, un’occhiata, e tirò di lungo senza fermarsi. Gesù non dice il motivo, ma lo si può immaginare: il sacerdote fors’era occupato delle faccende del tempio e della religione, forse temeva di contrarre impurità toccando un ferito o un cadavere.

   Passò un levita, cioè un addetto al tempio. Doveva essere una persona pia e religiosa, ma anche lui tirò diritto.

   Passò finalmente un Samaritano. I Samaritani erano particolarmente detestati. Avevano un altro tempio sul monte Garizim, diverso da quello degli Ebrei in Gerusalemme. Erano nemici di razza e di religione. Ebbene, il Samaritano si commosse di fronte al ferito che pure era un nemico. Avrebbe dovuto gioire. Eppure si dolse di vederlo nei guai. Si fermò, lo curò spargendogli olio sui lividi e vino sulle ferite, lo portò all’osteria più vicina, ebbe le premure di un fratello per lui e lo raccomandò all’oste, con l’impegno che sarebbe tornato per saldargli il dovuto.

   Con questa parabola Gesù sottolinea due fatti fondamentali: innanzi tutto che l’amore che egli è venuto a predicare fra gli uomini non ha confini né di razza né di religione, anzi può sgorgare al limite da uno che è di un’altra religione; e poi che amore non è lasciar cadere pochi spiccioli o dare una strappata. Amare significa lasciarsi coinvolgere dalla condizione di sofferenza, di emarginazione, di oppressione di un fratello, o anche di un estraneo, fondando con lui un rapporto di fraterna solidarietà che superi le divisioni imposte dalla società e dalla religione.

– La parabola, oltre a rivelarsi come una lezione per il sacerdote, il levita e il fariseo di allora, è stimolo alla riflessione per chiunque si consideri, oggi, cristiano.

– A me sembra che il messaggio di Gesù sia estremamente attuale. Noi siamo troppo avvezzi a farsi ciascuno gli affari suoi o, al massimo, quando vogliamo fare un po’ di bene – senza pregiudicare, per altro, il nostro potere, o far franare lo scalino su cui siamo saliti, o mettere in forse la nostra differenza di classe –, ci limitiamo a buttare gli spicciolini. Ci facciamo così la buona coscienza, ma questo non ha nulla a che vedere con l’amore che Gesù predicava. Gesù diede ben altro a ciascuno di noi. Attraverso la parabola è come se dicesse: “Se non scendi dai gradini della tua superbia, della tua arroganza, del tuo potere di classe, non sarai capace di riconoscere la sofferenza del tuo fratello”.

   Infatti, coloro che hanno mezzi, cultura e denaro e vivono nei quartieri eleganti della città, diversi e lontani da quelli dove si ammucchiano le classi più povere, non conoscono la sofferenza del popolo, le condizioni di sfruttamento del lavoratori, la disperazione del disoccupato che rischia di perdere anche la casa. Se non scendono dal loro piedistallo di privilegi, se non escono dai loro quartieri dove vivono in case confortevoli, dotate di tutte le comodità e del superfluo, non saranno mai in grado di condividere la condizione di precarietà del fratello cui tutto è negato.

Nella società strutturata in classi divise e in lotta fra loro, la scuola, come palestra di emulazione e discriminazione, mi sembra rispondere appieno alle scelte e agli obiettivi delle classi dominanti.

– Nella scuola la gara per il punto in più, per essere primi della classe oggi e sicuri di un posto migliore domani, rende più scaltri e più duri i giovani. L’insegnante che la promuove non tiene conto del fatto che non dipende soltanto dalla buona volontà e dalle doti individuali, se ci sono ragazzi che vanno meglio e altri che vanno peggio. Spesso sono diversi i punti di partenza.

   Una gara sportiva perde qualsiasi valore se tutti gli atleti non partono dallo stesso punto di partenza allo stesso colpo di pistola dello starter. Ora, nella gara della vita – ammesso che la vita debba per forza considerarsi una gara in cui uno arriva prima e l’altro dopo – ciò che è ridicolo è che non sono uguali i punti di partenza.

   Il figlio del professionista parte avvantaggiato a scuola. A casa sua si parla italiano corretto; se alla televisione non capisce una parola, subito i genitori gliela spiegano; addirittura qualche anno prima di andare a scuola già conosce una serie di nozioni, e in modo abbastanza corretto; ha una stanza tutta sua dove può ritirarsi e studiare in silenzio. Se poi non riesce bene, prende anche lezioni di ripetizione… insomma gode di una serie di vantaggi che il figlio dell’operaio o del disoccupato non ha.

Talvolta la discriminazione è molto più sottile. Il figlio del professionista diventa modello di comportamento. È buono, educato, mentre l’altro è cattivo, è arrogante e risponde male ai professori.

– Certo, bisognerebbe essere più cauti e valutare che cosa c’è dietro questi comportamenti. I ragazzi non sono mai cattivi. Sono le condizioni di emarginazione e di sofferenza che li rendono talvolta aspri e arroganti, al punto che si prendono delle rivalse, rispondono male, manifestando aggressività contro i compagni e gli insegnanti, in pratica rifiutando la scuola per darsi magari alla delinquenza.

Che cosa potrebbe allora essere la vita di una classe in una scuola proiettata verso il superamento delle discriminazioni sociali?

– Non tanto una competizione, che non sarebbe neanche leale proprio perché i punti di partenza non sono uguali per tutti. Una classe potrebbe diventare, in uno spirito umano e quindi anche cristiano, un luogo dove i giovani si aiutano, disposti ciascuno a prendere magari un punto in meno perché il gruppo con cui lavora faccia comunque qualche cosa, a rallentare il passo per facilitare anche gli ultimi, ad acquisire insieme parole e strumenti per farsi capaci di risolvere insieme problemi comuni.

   Ecco, io penso che questo sia un modo di essere cristiani e di vivere il Vangelo, perché, se un significato ha oggi essere discepoli di Gesù, esso deriva dalla costanza con cui si annuncia – e si vive – quella possibilità di amore, di solidarietà, di uguaglianza tra gli uomini che Gesù ha portato, scendendo dal suo piedistallo di Figlio di Dio per venire a essere uomo in mezzo agli altri uomini.

Ritornando alla parabola, come la si può leggere in chiave moderna?

– Il Vangelo è stato scritto dai discepoli di Gesù quasi duemila anni fa. Il cristiano vive l’esperienza del Vangelo dentro delle chiese storiche, come la Chiesa cattolica, la quale sta travagliando faticosamente per rendere comprensibile agli uomini moderni il messaggio d’amore di Gesù e confrontarlo con quegli strumenti che la cultura politica ha trovato per liberare gli uomini. Non credo che cambierebbe la parabola se, invece di olio e vino, si pensasse alla penicillina e ai medicinali più aggiornati. Così, naturalmente andando al di là del linguaggio simbolico, non è detto che si debba per forza aspettare che le persone siano bastonate o depredate. Si può anche prevenire la violenza dei ladri e adottare strumenti adeguati quali la stampa, il voto democratico, il confronto parlamentare, la rivendicazione sindacale, la lotta sociale e politica e talvolta perfino, come in certi Paesi coloniali, la lotta armata. Ecco, tutte queste forme di lotta degli uomini possono essere strumenti di amore…

Anche la lotta armata?

– Ritorniamo col pensiero a un’esperienza relativamente vicina. L’anno scorso abbiamo commemorato il trentennale della Resistenza. Ebbene, durante la Resistenza nessuno di noi ha voluto impugnare le armi, così, gratuitamente, tanto per il piacere di farlo. Ma, dovendo liberare il nostro territorio dagli invasori e da un regime totalitario, lo si è fatto, e lo si è fatto anche con amore. Mi sembra di poter concludere che, quando la dura necessità emerge tra gli uomini e la violenza non è voluta tanto dagli oppressi quanto dagli oppressori, si possa fare ricorso anche alla lotta armata.

In questo senso, la recente esperienza del popolo vietnamita è risultata esemplare, non crede?

– Durante gli anni di una lunghissima guerra di liberazione dal potere imperialista, il popolo vietnamita, sotto la guida dei suoi capi, ha imparato a resistere alla violenza degli oppositori senza odiarli. Ho Chi Minh ha sempre insegnato ai suoi giovani a non odiare il popolo americano, ma a combattere contro l’imperialismo e contro il meccanismo di potere che li schiacciava, che devastava le loro case e i loro villaggi, che uccideva donne, bambini e vecchi. Ricordo di aver visto un documentario vietnamita, proprio dei tempi della guerra, in cui di continuo ricorreva sullo schermo uno slogan, anche in mezzo alle rovine fumanti, ai cadaveri e alle scene più strazianti: “Trasformate l’odio in forza!” L’odio non costruisce nulla; per diventare capacità di liberazione deve trasformarsi in forza, e forza di amore: questo è l’insegnamento del popolo vietnamita.

L’amore cristiano deve trovare strumenti idonei per manifestarsi concretamente fra gli uomini. Quali Chiese storiche operano già in questo senso?

– Mi pare molto significativa l’esperienza dei vescovi brasiliani. Non sono soli, però; allo stesso modo operano i vescovi di Argentina, del Paraguay e dell’Equador. Tutti danno concretezza al loro amore lottando coi contadini per le terre. La terra è stata assegnata da Dio a tutti gli uomini perché su di essa si costruisse, si lavorasse, si producesse e si potesse godere dei frutti in piena serenità.  Invece, nei secoli passati, molti uomini, soprattutto i più duri, i più forti, i più scaltri, si sono impadroniti della terra in modo spesso illecito, approfittando delle disgrazie altrui e dei cattivi raccolti di quanti, per non aver pagato i debiti contratti, finivano magari schiavi a lavorare sulla terra che fin allora era stata di loro uso.

   Oggi spesso i contadini tentano di recuperare le loro terre e non soltanto laici cristiani, ma anche preti e vescovi ne sostengono le lotte nei modi più svariati. Ci sono diocesi che conducono campagne di alfabetizzazione attraverso la radio. Siccome non si riesce ad arrivare dappertutto con la scuola e talune popolazioni sono pressoché irraggiungibili, si fa scuola attraverso la radio. Ecco come la radio, che può essere uno strumento neutro e talvolta addirittura di dissipazione per certa pubblicità piuttosto sciocchina, diventa uno strumento di amore e di liberazione perché gli oppressi non soltanto si impadroniscono delle parole, ma imparano anche a conoscere le loro condizioni e a resistere allo sfruttamento, ad aggregarsi e a lottare per una società diversa e più giusta.

   Esperienze analoghe si fanno nel Vietnam, nelle ex colonie portoghesi e in altri Paesi del Terzo Mondo.

Quali Chiese si ostinano, invece, a trascurare le pressanti richieste delle classi più povere e diseredate?

– Accanto a queste Chiese ce ne sono altre, diciamo, più tarde, che sono piuttosto spaventate dalle novità, dal cambiamento e dalle lotte degli uomini, soprattutto da quelle che, a partire dalla fine del ‘700 e per tutto il secolo scorso fino agli anni nostri, sono scaturite dal movimento della classe operaia. Molti vescovi, memori degli scontri che storicamente ci sono stati tra socialisti e comunisti e cattolici, rimangono chiusi in una posizione di diffidenza o di condanna e addirittura colpiscono con sanzioni quei cattolici che scelgono di battersi al fianco delle forze popolari.

   C’è già stato un episodio increscioso. Nel 1949 si punì con la scomunica quei cattolici che, fedeli agli interessi delle classi lavoratrici, liberamente avevano pensato di aderire e sostenere i partiti di sinistra. Dal 1949 a oggi si è di nuovo lentamente sviluppato un ampio movimento di cattolici che, pur conservando il loro riferimento a Cristo, al Vangelo e anche alla Chiesa storica in cui sono nati e cresciuti, quando si tratta di adottare quelli che ho chiamato “strumenti di amore” del nostro tempo, quali il sindacato, le associazioni politiche, i partiti, etc. – strumenti opinabili, adottando i quali si può anche sbagliare –, si riservano ciascuno di fare liberamente le proprie scelte. Così, sia per il referendum del 1974 contro l’abrogazione del divorzio, sia nelle ultime elezioni amministrative e politiche, moltissimi cattolici non si sono più ritenuti vincolati da quella condanna.

– Si apre quindi una prospettiva di speranza. Tuttavia mi sembra che il dibattito fra i cattolici si sia fatto aspro e che si cerchi di limitare in qualche modo il fenomeno. È d’accordo?

– È positivo che un crescente numero di cattolici faccia cadere il diaframma che li divideva dagli “altri”, dagli avversari di un tempo, e che la divisione non corra più fra cattolici e comunisti ma fra comunisti e non comunisti, o meglio ancora fra chi vuole una società guidata dai lavoratori e chi intende prolungare i privilegi di classe. È questa una divisione corretta, una divisione non religiosa, ma che riguarda gli interessi individuali, i modelli di sviluppo e il progetto di società. Viviamo in una società pluralistica e non tutti sono, naturalmente, dello stesso partito. Però ciò per cui io ho speso tanta parte della mia vita è perché questa divisione non sia una divisione religiosa: che gli uomini, a seconda dei loro interessi, attraverso i loro progetti per la società, si dividano, è comprensibile; ma che a dividerli sia la religione cristiana, che oppone i buoni ai cattivi, questo, oltre a non essere corretto sul piano umano, è un’offesa a quel Gesù che è venuto a unire gli uomini e non a dividerli.

Che cosa può dire la Chiesa alle classi dominanti?

– La Chiesa, in una certa misura, appartiene alle classi dominanti. Per dire una parola forte e coraggiosa e invitarle a rinunciare al loro potere e alla loro arroganza, la Chiesa dovrebbe saper prendere le distanze da queste.

   Se Gesù parlava con tanta forza ai ricchi e ai potenti e li ammoniva dicendo che era più facile che un cammello passasse nella cruna di un ago che un ricco entrasse nel regno dei cieli, poteva farlo perché era indipendente, era libero, non si faceva scalino delle sue amicizie e della sua cultura per diventare una persona influente. E questo gli costò la vita, perché fu condannato a morte. I cristiani credono a lui come vivente, come risorto che è passato, però, attraverso la durissima prova dell’essere escluso, rifiutato e condannato. E a condannarlo non era stato tutto il popolo, ma proprio quelle classi dominanti contro il potere delle quali egli parlò.

   Una Chiesa profetica, una Chiesa veramente discepola di Cristo avrà lo stesso rigore nel denunciare l’oppressione e la ricchezza.

   Talvolta questo è avvenuto. Recentemente ho letto dei documenti di Mons. Vieira Pinto, primate della Chiesa mozambicana, nei quali c’è una fortissima accusa contro il colonialismo e contro l’oppressione dei popoli africani. Questo vescovo fu cacciato dalla sua sede. Oggi però in Mozambico la situazione è migliorata, egli è tornato al suo posto ed è onorato da tutti. In un certo senso, c’è stata per lui una sorta di morte e resurrezione, che è passata anche attraverso le lotte del suo popolo.

   Credo che anche in Italia, se vogliamo una Chiesa che parli con chiarezza all’arroganza e allo strapotere di certe classi che si possono concedere tutto, mentre altri hanno da fare sempre i conti col proprio salario, coi prezzi che salgono, con gli sfratti di classe, la Chiesa deve correre il rischio di una crocifissione, sapendo però che il Signore dà sempre speranza e ci farà risorgere tutti.

(Questa intervista, realizzata da Raffaele Di Paolo e Aldo Onorati il 27 luglio 1976 – pochi giorni prima che il Card. Poletti, Vicario generale di Roma, riducesse alla stato laicale Dom Franzoni – era rimasta inedita fino ad oggi).

 

 

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